Questa pandemia ha riportato alla luce un dibattito che di fronte alle tante nostre emergenze, sociali ed economiche soprattutto, da troppo tempo viene relegato nei titoli di coda. I problemi ambientali, voglio dire, vengono sempre affrontati un giorno all'anno, nella giornata del mare, o nella giornata dell'aria, della tutela della della natura, della biodiversità, dell'inquinamento, delle zone umide, della fauna selvatica, dell'orso polare, delle foreste o...nella giornata della pesca sostenibile. Se c'è. E probabilmente c'è. Magari in concomitanza con la giornata mondiale della ...trota al cartoccio.
Il problema è non l'inquinamento genericamente inteso, ma le ragioni che questo inquinamento provocano. Idrocarburi, chimica in agricoltura, sviluppo incontrollato. Se ci dovremo occupare di innovazione, dovremmo stare attenti non solo a quello che la scienza e la ricerca ci propongono (non tutto quello che ci raccontano gli scienziati è "buono e giusto"), ma anche e soprattutto ai modelli di applicazione. Si parla, per esempio, di scenari futuribili che danno entro il 2050 (che praticamente è domani) due terzi della popolazione mondiale ammassata nelle megalopoli. In Europa e in America siamo già all'80% che vive in aree urbane. Mentre, oggi, ci accorgiamo con stupore e angoscia che la salute dell'umanità corre rischi gravi, per pandemie e malattie varie, proprio in queste supercittà, che spesso crescono senza controllo, nè urbanistico nè sanitario e tantomeno sociale. Il noto botanico Stefano Mancuso, ormai una star per le sue scoperte sulla "vitalità" delle piante, proprio in questi giorni ha richiamato l'attenzione sul fatto che "occorre una nuova idea di città". Fenomeni come quello del Coronavirus 19, dice, non accadono per caso, ma sono la ovvia conseguenza dell'aumento sconsiderato del consumo delle risorse limitate e dell'insostenibilità dei nostri sistemi di produzione. L'uomo, dopo millenni che ha cercato di espandere la propria specie sul pianeta, oggi in pratica fa marcia indietro e si raccoglie all'interno di un misero 2,7% di superficie delle terre emerse. Le città, appunto. Nel frattempo è cresciuta in poco più di cento anni da un miliardo e seicentoncinquantamila ai più di sette miliardi di oggi (nove miliardi nel 2050). Ecco che queste concentrazioni, forte attrattiva per chi aspira a migliori condizioni di vita, diventano una vera e propria bomba a orologeria, non solo per l'incombere di pandemie, sostiene Mancuso, ma anche perchè di conseguenza "sono anche i principali motori di aggressione all'ambiente". Occorre pertanto prima di tutto una nuova idea di città, ma a mio parere anche un diverso approccio culturale all'idea di campagna. Se il futuro deve essere più green, come sostengono tutti, bisogna ripensare anche l'approccio alla campagna. Che deve tornare a vivere, con idee antiche - anche le nostre, di cacciatori - corroborate da modelli nuovi, nuove competenze, convogliate soprattutto su giovani di buone speranze e moderne conoscenze. Da impiegare per esempio in una agricoltura sana, un cibo sano - e la selvaggina è sicuramente in prima linea - una nuova solidarietà che può trovare dimora solo in un ambiente sociale come quello della "sana cultura contadina", non aliena almeno da noi da una osmosi con la "civiltà urbana". "Uno degli elementi distintivi della storia italiana - spiega Carlo Petrini - è il rapporto città-campagna. Siamo gli unici ad avere il termine "contadino", significa colui che vive fuori città ma che con la città ha un rapporto organico: La produzione del cibo può diventare un elemento politico. Dal cibo come merce al cibo come relazione".
Insomma, verrebbe da dire: ripensiamo le città, ma ripensiamo soprattutto l'idea di società, che preveda un legame stretto fra città e campagna che non demonizzi un modo di vivere, caccia e selvaggina cacciata comprese, che ci riporti a dimensioni più umane. Per sfuggire da quegli sconquassi che ci obbligano a respirare aria malsana, a consumare cibo insapore, lottare contro incendi a dimensione quasi continentale, subire la perdita di suoli fertili e di terre adatte allo sviluppo delle specie selvatiche. E guardando anche al nostro piccolo orticello, questo ancora meraviglioso Belpaese, viene da pensare che anche noi cacciatori ci dovremo impegnare per salvaguardarne la residua integrità. Non basta, come ha fatto il candido Ministro dell'Ambiente Costa, in occasione della Giornata Mondiale dell'Ambiente, andare in televisione per lamentarsi degli Stati Uniti che sono usciti dal'accordo di Parigi sul Clima e del Brasile che non frena la distruzione della foresta amazzonica. Non che sia sbagliato, anzi, ma mentre si pensa in grande, non sarebbe male operare in piccolo, anche nel tuo cortile. Di minacce fuori dell'uscio di casa ne abbiamo tante e da tempo. E non sono la caccia e i cacciatori, il ministro se ne deve convincere. Oggi che si discute sui cosiddetti "stati generali" si parla di un milione di alberi da piantare non si sa bene dove (in città secondo il modello di Bosco Verticale dell'architetto Boeri?) e come, per recuperare l'handicap green. Speriamo che non sia la solita foglia di fico. Di verde in Italia ne abbiamo abbastanza, peccato che in tutta la dorsale appenninica sia praticamente lasciato all'incuria da decenni. Ci vuole ben altro!
Vito Rubini