Non c'è che dire. C'è gente che incomincia a fare sul serio. E che gente, poi. Fior di esperti della caccia, intellettuali, ricercatori, specialisti. Mi riferisco a quelli che fino ad oggi hanno "firmato" il cosiddetto "Manifesto di Trieste", per chiedere una modifica alla legge sulla caccia, ormai inadeguata ai tempi. E su questo, come su altre cose richiamate nelle diverse sure, siamo d'accordo. Già da tempo, complice anche Facebook, fioccano i commenti. I più diversi, per contenuti, provenienza e qualità. Qualcuno addirittura si riserva di annunciare integrazioni, aggiustamenti, nuove proposte. Segno che, nonostante tutto, questo nostro mondo è ancora vivo, o quanto meno si sta risvegliando da quel lungo torpore in cui l'evolversi caotico della società contemporanea l'aveva relegato, salvo ovviamente la protesta, spesso più che legittima, ma tuttavia quasi non più legittimata da modelli comunicativi capaci di fare breccia nella società. Se non, in negativo. Purtroppo. Inutile andare a richiamarne le cause, quotidianamente riproposte anche su questo portale.
Il Manifesto, dunque. Apprezzato da molti, alcuni dei quali tuttavia ne evidenziano un chiaro localismo. Legato alle tradizioni friulane, con velature austro-ungariche, nelle corde dei principali estensori del testo, cresciuti in quella cultura venatoria, seppur ricchi di conoscenze tecniche e scientifiche di multiforme provenienza. In sostanza dei supertecnici, praticanti soprattutto certe forme di caccia, delle quali niente si può dire, almeno dal nostro punto di vista di cacciatori comuni, appassionati ma comuni, sennonché di forme di caccia in Italia ce ne sono tante, legate appunto ai territori, diversi ed eterogenei lungo lo stivale, alle specifiche tradizioni, alle infinite sensibilità dei singoli praticanti, che per adottare un modello più evoluto prima di tutto lo devono capire, vi si devono immedesimare, lo devono adattare al loro più intimo sentire. Non è cosa facile, ovviamente. Ma l'importante è che si cominci. A discutere, a riflettere, a sperimentare. Sarebbe un errore però calare quest'assunto dall'alto. Ma - nell'attuale marasma della politica italiana - anche solo per integrare la legge vigente, vecchia e mal digerita, si farebbe davvero fatica a trovare dei convinti interlocutori.
Qualche chiosa quindi, da aggiungere alle diverse che se ne stanno partorendo. Intanto integrerei l'approccio. Il patrimonio faunistico italiano, nella sua diversità, è molto importante. Va salvaguardato non solo per i cacciatori, ma per tutta la comunità. Il prelievo venatorio o presunto tale è minimo, per certe specie quasi ininfluente, ma in ogni caso assolutamente non determinante. Volendo reprimere il fenomeno del bracconaggio, sarebbe importante individuare chi direttamente o indirettamente fa fuori la stragrande maggioranza di animali selvatici. Per saperne di più basta scorrere i periodici rapporti nazionali e internazionali sullo stato dell'ambiente e della fauna selvatica. Un cacciatore nuovo non può prescindere da questa consapevolezza, e agire di conseguenza. Denunciando e combattendo quei soggetti e quelle realtà che sono il vero pericolo per le specie selvatiche. In altre parole la vera essenza del bracconaggio.
Altro punto: la caccia è economia. Lo è ovunque, in Europa e nel mondo. Lo deve essere sempre di più, nel rispetto dei più importanti principi di conservazione. La selvaggina cacciata ha un valore economico importante, almeno per chi la consuma. La selvaggina è obbligatoriamente legata al territorio. Sia quella definita stanziale sia la migratoria. L'aumento o la diminuzione di specie oggetto di prelievo venatorio non dipendono dalla caccia così com'è oggi praticata, ma dal mantenimento degli ambienti più adatti alla loro presenza. Volendo essere pratici, l'articolo 1 della 157 andrebbe integrato in modo che potesse distinguere la proprietà della selvaggina dalla titolarità della sua gestione, sociale o privata che sia. Buoni esempi, più che nella mitteleuropa, sarebbero da ricercare nei paesi di lingua neolatina, da cui attingere anche per le esperienze dei consolidati organi gestionali, centrali (totalmente assenti in Italia) e periferici (sicuramente da ripensare); distaccandosi possibilmente da quel populismo di maniera che si barcamena fra il concetto di "libera caccia in libero territorio" e quello di "caccia sociale assistita".
Insomma, è da tempo ormai che a più riprese si prova a dare un volto, una sostanza, una consistenza a questa caccia italiana, che malgrado tutto resiste alle intemperie di una stagione sostanzialmente avversa. Le associazioni venatorie più accorte, con tutti i limiti che si possono loro attribuire, si danno da fare per affrontare il problema, con alterne fortune. Mentre i cacciatori, localmente, in funzione delle specifiche realtà, provano a darsi autonomamente delle regole. Come del resto hanno sempre fatto. Ben vengano quindi i "manifesti" e le osservazioni ai manifesti. L'auspicio è che qualcuno, ai vertici, se ne faccia carico per tutti. E conferisca sostanza alle tante idee che circolano.
Vito Rubini
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