La caccia è un'attività lecita e diffusa in tutti i paesi del mondo (con la sola eccezione del Costa Rica per controllo delle armi) perchè il suo esercizio risale alla notte dei tempi (quando aveva una essenziale funzione alimentare) divenendo poi parte del costume e delle attività umane radicandosi nella profondità della psiche.
Gli anticaccia sono una minoranza chiassosa e instancabile che da sempre cerca di mobilitare una maggioranza così da poter contare sulla forza dei numeri per il suo scopo abolizionista.
Per mobilitare l'opinione pubblica gli abolizionisti hanno preso in prestito dai verdi e ecologisti alcuni slogan tanto apparentemente suadenti quanto sostanzialmente infondati, e dalla loro analisi emerge che l'odio verso la caccia è solo una forma di irragionevole schizofrenia.
A sostegno dell'abolizione vengono addotti nella sostanza tre argomenti: a) la caccia è una strage indiscriminata di fauna selvatica con pregiudizio della bio-diversità; b) è inaccettabile trarre diletto dall'uccisione di animali; c) la maggioranza è contraria al suo esercizio.
Sulla strage di animali selvatici solo gli abolizionisti ignorano quello che è noto agli ecologisti e agli esperti di scienze naturali e cioè che la piccola selvaggina stanziale è in crisi in Italia da oltre mezzo secolo, e non a causa della caccia, ma dell'antropizzazione del territorio e dell'agricoltura intensiva che si avvale della chimica.
Per queste cause sono estinti o in via di estinzione non solo un gran numero di specie mai cacciate ma anche molti altri piccoli vertebrati e invertebrati. Gli abolizionisti fingono di non sapere che oggi la piccola selvaggina stanziale è in gran parte frutto di allevamenti.
Per gli uccelli migratori, in massima parte non oggetto di caccia, occorre chiamare in causa le aree di sosta che sono inospitali, mentre i limiti di prelievo delle poche specie cacciabili sono davvero bassi. La spesa per gli animali di allevamento è sostenuta dai riservisti e dai cacciatori senza oneri per la collettività.
Ritenere che il diletto del cacciatore sia uccidere gli animali è un espediente polemico di bassa lega che può apparire convincente solo a chi nulla sa della caccia.
La caccia consiste in una sequenza di attività ritualizzate tra loro interconnesse, in una evocazione metaforica di ciò che un tempo era necessario per sopravvivere.
Si articola nell'allevamento e addestramento del cane, nella gestione dei territori, nell'esplorazione lunga e faticosa delle zone, nell'aleatoria ricerca di un qualche incontro con la preda grazie al lavoro del cane, e, assai raramente nello sparo.
L'estrapolare l'uccisione dell'animale dalla sequenza delle azione che nella loro inscindibile connessione sintetizzano la caccia, e, a questo solo elemento isolato in modo arbitrario attribuire un ruolo esclusivo è inappropriato.
Per analogia, il buongustaio ama la bistecca spinto dalla golosità e non si cura dalla morte dell'animale (che pure è indispensabile); ma concludere che è la morte dell'animale a dargli piacere è insensato.
Come in guerra il soldato che spara al nemico non è un assassino anche se priva della vita un essere umano, perchè nel contesto bellico il nemico è un pericolo da eliminare, così il cacciatore che spara alla preda è spinto da un contesto giustificativo antropologico-culturale consolidato da una prassi atavica socialmente metabolizzata che genera una condizione di indifferenza morale rispetto all'uccisione della preda, perchè ciò è conforme alla prassi venatoria.
Quanto alla presunta avversione alla caccia della maggioranza, essa anzitutto è tutta da dimostrare, perchè i tentativi fatti fino ad ora dimostrano il contrario, ma ammesso e non concesso che sia così, il nostro sistema costituzionale tutela i diritti delle minoranze.
Si provi ad immaginare se i diritti delle minoranze etniche, religiose, sessuali, linguistiche, culturali, politiche, economiche e sportive, dovessero dipendere dal consenso della maggioranza e dalla sua approvazione. Che succederebbe? La misura della civiltà di una società è data dalla tutela delle minoranze e poichè la caccia è entrata a far parte del costume legittimato da una tradizione, il suo esercizio, come tutti i diritti, è un diritto di libertà che trova il suo limite nella lesione del diritto altrui.
Nel nostro ordinamento la tutela delle minoranze risponde ai principi di uguaglianza e di pluralità, perchè tende ad assicurare ad ogni uomo la possibilità di realizzare come vuole la sua personalità così da conseguire salute e benessere.
A tal fine, la libera esplicazione delle attività finalizzate allo svago trova il suo limite solo nel contrasto con altri diritti di pari dignità o nella lesione della libertà e della sicurezza di altri.
In questo contesto l'espediente di predisporre i quesiti riferendosi non sull'esercizio venatorio (che sarebbe improbabile) ma su aspetti della disciplina venatoria allo scopo di rendere praticamente impossibile l'esercizio, rientra nell'illegalità.
Enrico Fenoaltea
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