Era l’autunno 1982, avevo vent'anni e da poco più di un anno era finito il liceo, che a suo modo mi era piaciuto, mi ero iscritto a Medicina e Chirurgia ed avevo già dato tre esami, poi … un’estate indimenticabile: una mora non alta ma formosetta e con occhi taglienti mi aveva folgorato, ma io non avevo folgorato lei! L’Italia con una escalation magica, aveva vinto i Mondiali di Calcio a Madrid battendo squadre fortissime e poi la Germania in finale al Santiago Bernabeu. Nell’estate, forse a inizio luglio, ero stato con Benno ad Este alla Negrello, il direttore vendite, Giorgio Rosatti “Pelo” campione incommensurabile della pedana e amico di Benno, ci diede le ultime cartucce da caccia di quella straordinaria azienda veneta: le mitiche “P” da 33 grammi e le Miura Super Caccia, di cui era rimasto solo il n. 6, che poi diedi quasi interamente al mio amico Pietro. La Negrello era in chiusura, dopo anni di successi, se ricordo bene, pare fosse stata boicottata ed aveva mancato una consegna, il fatto aveva causato il fallimento.
Ora la caccia era per me una malattia incurabile. Avevo due cani: un Bretoncino bianco forse non purissimo per una scappatella galante della nonna, con un setter, si chiamava Axel degli Ortensi, intelligente e vivace, gli mancava solo la parola. L’altra l’avevo trovata in mezzo alla strada, cucciolona, solo da poche settimane. Zara era una Setter Laverack, bianco-nera, timida. Era dolce come il miele, trovati padrone, un accordo e certificato del LOI, era divenuta mia ufficialmente, era la mia Zara, vero nome "Silla" della dinastia “Del Reginin” e “Del Trivellano”.
Tutto accadeva quarant'anni fa, io ero già cacciatore laureato in provincia a Bologna con lode, già da due anni. Da tempo ero molto attratto dai vari calibri minori, me ne ero innamorato da bambino, vedendo una cartuccia decisamente più piccola dello standard tra quelle della Famiglia Cristoni.
Tutto però iniziò dopo aver ricevuto due piccole cartuccine in cartone calibro 36, dal mio amico d’infanzia Gianfranco Zecchi; erano i tempi delle ragazze appena sbocciate, della fantasia, degli entusiasmi immediati, … e dei sogni.
Da quelle cartucce sottili in cartone, che erano decisamente più piccole dei 12 e 20 che già possedevo in due semiautomatici Benelli e Beretta, scoppiò una passione fortissima, insistente, tipicamente ormonale e giovanile.
All’improvviso la mia giornata era diventata piena di ricerche volte a saperne sempre di più sul quel piccolo bellissimo calibro 36, comperavo pubblicazioni in cui se ne parlava ed in armeria o ai ritrovi serali tra cacciatori, raccoglievo informazioni, su prestazioni e caricamento delle cartucce, poi proprio in quell’anno l’articolo di Diana sul calibro 36 scritto da Antonio Granelli, il mio mito.
Le due cartuccine che Gianfranco mi aveva regalato, erano entrambe nel - già obsoleto a quei tempi - bossolo di cartone da 65 mm., con innesco 5,45 bifocale e chiuse ad orlo tondo: una del n. 8 su bossolo Fiocchi Rosso Cane e una del. n. 11 su bossolo Martignoni Lepre.
Gianfranco sapendo quanto mi piacessero, le aveva prese dalla fuciliera del fratello Daniele; ma alcune, il brigante, le aveva tagliate realizzando insieme a Bigio, una grossa castagnola, con la polvere recuperata, che era un misto di DN e Acapnia.
Eravano nei giorni centrali dell'autunno, i giorni alla metà di ottobre, cacciare era solo questione di scelta. La stanziale: lepri e fagiani, ancora abbondante, c’erano tordi e merli, allodole iniziavano a passare, ma Spadolini proprio quell’anno aveva chiuso la pispola.
Si erano già visti i colombacci, – allora rigorosamente di passo in migrazione – era possibile quell’anno sparare in deroga o per ordinanza, alle tortore dal collare che erano numerose e molto diffuse e facevano danni agricoli. Le tortore erano abituate ad uscire dal paese, andavano a pasturare sui seminati di grano e sulle stoppie del granoturco, erano numerose e già alla preapertura di agosto si erano fatti cospicui carnieri, tutti i capanni tra le stoppie o tra le zolle dei primi arati avevano sparato tutti in abbondanza.
Mi mancava il fucile, ma sapevo dove trovarlo. Per sparare la più piccola cartuccia tra i calibri da caccia, il 36, il fucile - un semplice vecchio Beretta monocanna mod. 412 - me lo diede il mio barbiere Amedeo.
Era messo maluccio quel tronchino di buona marca, i legni ancora discreti, l'esterno vissuto e perfetto, ma era l'interno della sottile canna non cromata ad essere piuttosto corroso e pieno di macchie scure. La canna era di 710 mm. ed era arabescata sulla sua parte alta dalla culatta alla volata, per evitare i riflessi durante la mira. Quel fuciletto bilanciato e leggero, sottile, pronto alla mira, che mi faceva allineare subito occhio, sulla pista zigrinata e mirino con i vari bersagli, quel fuciletto mi piaceva da impazzire lo imbracciavo e tenevo in mano per ore, con piacere e gusto.
La canna aveva una brunitura violacea, color melanzana, l'acciaio era di un tipo ben scritto sulla sua zona posteriore sinistra, "Ausonia Electric Steel". Anni dopo avrei saputo che quel misterioso "Electric" significava che il rinvenimento del tubo era stato fatto in Beretta utilizzando il precisissimo effetto di un forno elettrico. L'acciaio era semplice ma ottimo, elastico non era bilegato o trilegato, ma balisticamente dava ottimi risultati, infatti lo avrei scoperto bene nel corso del tempo, con tutti i vari calibri camerati nel monocanna Beretta di vecchia produzione e nelle doppiette modd. 409; solo non era cromato il lume interno di canna, quindi faceva la ruggine con i terribili sali di clorato di potassio e di fulminato di mercurio lasciati dagli inneschi 5,45 di allora.
La foratura era marcata sotto all'astina in legno che si toglieva dopo aver svitato e levato la maglietta porta cinghia. Camera di 65 mm. e anima forata 10,6 mm. strozzatura a 10,0 mm. quindi sei decimi ovvero una Full, in parole povere … una stella.
Il barbiere Amedeo mi diede il fuciletto piuttosto sporco e con puntini di ruggine qua e là, una mezza scatola di Fiocchi d’epoca, le prime PL1 in plastica n. 10 e 15 bossoli in ottone. Mi disse che il fucile lo rivoleva entro una settimana...! La bobina la trovai all’armeria Pola di Finale Emilia, economica, ma in grado di fare un orlo bellissimo e sottile.
Gli inneschi 5,45 Fiocchi bifocali, me li diede Enzo, dell’Armeria Paradisi di Modena, insieme a costosissime borre Bonavita A2 ed un paio di scatoline di cartoncini Gualandi, una del tipo bianco neutro ed una del tipo numerato “8” del bellissimo vecchio tipo giallo.
Renato Baccilieri mi regalò una fustella da 10 mm. … attrezzo che si trasformò in un attrezzo per produrre cartoncini, sugherini, feltrini e spessori.
Borraggio chimico nessuna traccia, fu allora, che la grattugia a manovella della nonna Fernanda, ridusse in granulato sottile almeno 50/60 sugheri da bottiglie, presi dal cassetto in cantina del nonno Nino.
Il dosaggio della GM3, che avevo in una mezza scatola da chilo, lo presi dal Granelli, … g. 0,55x10, borraggio tradizionale ed orlo tondo in bossolo di plastica 36/65, con innesco 5,45 a due fori.
Le mie cartuccine erano ricaricate senza ricalibrare i bossoli, che comunque erano solidi nel fondello e rientravano bene nel tronchino Beretta. Pulivo i bossoli, mettevo il nuovo innesco, la dose di GM3, un feltrino bianco fustellato da suolette da scarpe, granulato di sughero a misurino, cartoncino bianco, pressatina a misura col calcone fino alla riga di livello, piombo poche del n. 10 e altre del n. 8, orlo tondo, che veniva davvero bene, ed ero pronto per la prova pratica.
Decisi di provarlo sulle tortore dal collare, che non mancavano. L’indomani appena pranzato ero con fucile e cartucce da Vitori Sala, cognato del barbiere.
Vitori, lavorava un fondo agricolo appena fuori dalla periferia del paese e per la posizione c’erano spesso rotte di affilo di varie specie che vi passavano; molte delle tortore che uscivano dal paese a pasturare nei campi seminati a grano, passavano sulla campagna di Vitori, il punto migliore era tra il pereto e la vigna, così mi appostai proprio lì, coperto dall’ultima pianta di pere William che terminava l’ultima fila a spalliera, aprii il monocanna Beretta, feci scivolare una rossa cartuccia del n. 10, chiusa col dischetto bianco, in camera e lo richiusi delicatamente con un netto piacevole rumore metallico .
Vitori era venuto curioso di vedere in azione quel fuciletto che lui chiamava impropriamente “Flobert”, si mise coperto anche lui da una pianta al mio fianco a un paio di metri da me.
La prima tortora, stava arrivando, la vidi avvicinarsi con i soliti colpi d’ala, dissi qualcosa a Vitori e me la trovai davanti in volo frontale abbastanza veloce, non molto alta; attesi e quando arrivò a circa 18/20 metri, scattai fuori dalla pianta, la coprii con la canna stringendo; la fucilata secca e poco rumorosa fece il suo effetto chiudendola in un coreografico fiocco a mezzaria con bella spiumata, cadde pochi metri dietro a noi, sulla carreggiata di divisione tra frutti e vigna.
Fulmin ata nessuna goccia di sangue, segno che le cartucce tagliavano bene!
Vitori la stava raccogliendo e sorrideva compiaciuto, quando scorsi altre due tortore in arrivo, la linea era la stessa, con un gesto lo feci abbassare e fermare, giusto in tempo per sparare alla più vicina, anch’essa sui 20 metri, leggermente alla mia sinistra con più angolazione rispetto al primo colpo, infatti la dovetti anticipare, stesso colpo secco e tagliente, altro fiocco, che cadde tre file dentro al pereto, Vitori rideva mentre la raccolse e la affiancò all’altra alla base della sua pianta di copertura.
Decisi di provare il piombo n. 8 e così infilai nel tronchino una cartuccia contraddistinta dal dischetto giallo stampato col n., 8 in nero; stavolta passarono diversi minuti, una tortora grassa e lenta era in arrivo, ma non proprio allineata come le altre, dalla traiettoria capii che sarebbe passata più a destra, mi preparai col fuciletto mezzo imbracciato, feci un cenno al mio amico e quando vidi la mia preda nel punto più vicino della sua traiettoria la anticipai mezzo metro e sparai. La tortora cadde non fioccata, infatti l’avevo colpita leggermente dietro, l’anticipo non era stato adeguato, Vitori la raccolse e con mano esperta la spense tirandole il collo, come fosse uno dei suoi polli. Altra cartuccia del n. 8 nel monocanna Beretta 412, che si chiudeva con un rumore metallico piacevolissimo.
Quasi subito un gruppetto di quattro tortore sopraggiunse dritto rispetto a me, ma alto, non volevo fare botti inutili e lo lascia passare, col disappunto di Vitori, che con un gesto mi chiese perché non avessi sparato.
Passarono circa 25 minuti, in ferma totale; pareva che l’aver trascurato quel tiro, mi fosse stato addebitato come mancanza di rispetto, poi un branchetto di alcune tortore apparve davanti sulla terra seminata, arrivavano alte oltre 20 metri e veloci, un tiro da calibro 12 o almeno 20.
Le lasciai avvicinare e col colpo del re sparando quasi in verticale fulminai la prima, il capostormo, Vitori ebbe una esclamazione di gioia e di riconoscimento per il bel tiro, la tortora ci cadde meno di un metro alle spalle sulla carreggiata e finì sotto al pero con le altre.
Il quinto colpo su una tortora facile ma molto angolata a destra, venne mancato clamorosamente per insufficiente anticipo; era evidente che le cartuccine a velocità modesta non appena si sparava qualche metro oltre il solito limite dei 20/24 metri, mostravano il loro limite, mancai anche la sesta in un tiro quasi gemello, … e questo mi innervosì, ma mi rifeci sulle successive tre, tutte fulminate anche a buone distanze, con anticipi abbondanti e molta attenzione messa nella massima precisione di collimazione.
Avevo capito chiaramente alcune cose, le mie cartucce andavano benone, infatti le tortore centrate erano cadute tutte, fulminate e senza o con poco sangue al becco, molto pulite. Quel piccolo fuciletto, di cui mi stavo innamorando, mostrava di avere una ottima micidialità, ma anche di richiedere precisione assoluta nel puntamento, non perdonava infatti gli errori, anche minimi.
Era ormai giunta l’ora dell’imbrunire, le tortore erano rientrate, Vitori quelle abbattute su mia insistenza le aveva portate a casa, sapevo che le avrebbe fatte pelare dalla vecchia zia che era in famiglia; stavo decidendo di andarmene, ma volevo arrivare ad otto; e l’ottava arrivò, non velocissima e a mezza altezza anche questa mi sfiancò sulla destra, la incannai portando la fucilata circa mezzo metro davanti alla mia tortora, che venne colpita con evidente spiumata ma non cadde. La seguii fino al limite della vista poi mi venne coperta dalla vigna e la perdetti.
Raccolsi la mia borsa genovese porta cartucce, contai i bossoli vuoti nella tascona posteriore della giacca da caccia, mi misi in spalla il tronchino aperto e mi avviai sulla carreggiata, tra vigna e frutteto, verso la casa colonica, quell’ultimo colpo mi aveva amareggiato.
Raggiunta la fine della carreggiata, scorsi Renzo, il padre di Vitori, arrivare seguendo l’argine del fosso di irrigazione, sapevo che c’era, perchè lo avevo sentito da lontano, parlare col loro vicino, avvicinandosi mi guardò e mi mostrò la tortora che teneva in mano, era morta e senza sangue; mi disse che gli era caduta quasi davanti ai piedi, … ne fui intimamente felice, otto tortore in volo, su dieci colpi, la media era superlativa.
La prova del calibro 36 era stata avvincente e galvanizzante ed io da quel momento seppi che avrei destinato una parte importante della mia passione ai piccoli calibri, quelle cartucce sottili e intriganti che il mio caro amico Gianfranco, scomparso ancora giovanissimo, mi aveva regalato facendo iniziare tutto questo, proprio nell'anno dei nostri vent’anni, ricordo granitico e indimenticabile del mio grande amico di scuola e di vita e della mia passione per la caccia e per le cose difficili, ma appaganti.
Gianluca Garolini