Ho fatto l’apertura. Senza cane. Ho provato a misurarmi – come da ragazzo – con qualche merlo, una tortora di quelle che non sono partite per il sud, qualche colombo impaesato. Mi sono tenuto lontano dai teatri fagianari, dagli abbai segugiformi. Li ho controllati in lontananza. Li ho ascoltati.
Poco dopo mezzogiorno, un carnieretto discreto, mi sono seduto a rimirarlo, all’ombra di una quercia frondosa, ho tirato fuori la merenda, pane e salame (misto cinghiale), una bibita light (vinello di 11 gradi) e, mentre mangiavo di gusto, ho scorso nella mente le mie tante, troppe, aperture. E col fatto che l’appetito vien mangiando, ho ripercorso a ritroso molto in là nel tempo gli aspetti più significativi della nostra caccia italiana.
Le cacce tipiche, mi sono detto. Ma quali sono? Beh, per me toscano, non per averle vissute tutte personalmente - non sono poi così vecchio – ma per averne sentito parlare, e per averne letto un po’, sono, erano, tante. Col fucile e senza. Prima che arrivasse il fucile - ma bisogna andare molto indietro nel tempo, se si pensa che Leonardo da Vinci aveva già inventato la mitragliatrice – erano reti, trappole, archi, balestre. Falconi. I cavalieri, i signori, si confrontavano con orsi, cinghiali, cervi, caprioli. Alle anitre, alle pernici, alle starne, (alle lepri), si andava con le reti o col falcone. Le reti si utilizzavano poi per roccoli, paretai, prodine, e gli uccelli migratori che vi venivano presi erano capinere, pettirossi, prispoloni, e tordi, cesene, sasselli, tordele, merli, ma anche pavoncelle e trampolieri, storni, allodole, pispole, cardellini, e chi più ne ha più ne metta. Nel settecento, si cominciò a portare il fucile anche nel capanno dell’uccelliera. Non erano solo piccoli borghesi o popolani, quelli che ne facevano una passione. Al Museo della caccia di Cerreto Guidi, per esempio, è conservato un capanno/portantina, dai colori che si confondono con l’ambiente (dire mimetizzato è un po’ troppo), con tanto di “feritoie”, col quale il Granduca Leopoldo di Toscana si faceva accompagnare nel bosco e – molto probabilmente – da lì sparava anche a uccelli di piccola taglia. (graditissimi dettagli storici al riguardo). Quindi, mi sono detto, dal Granduca in giù, fino all’ultimo dei suoi sudditi, erano uccelletti a gogò. Certo, se ne faceva uso alimentare. I più poveri, di rado, perché ne facevano baratto con altre merci di cui non disponevano. Ma anche il Granduca e i suoi pari rango ne facevano commercio. I loro roccoli, le loro uccelliere rifornivano la loro tavola, ma i frigoriferi non c’erano, la carne si squagliava rapidamente e quindi andava trasformata in denaro. Tutti contenti. I cacciatori che li cacciavano, i denutriti e i ghiottoni che li mangiavano, i commercianti (di solito i verdurai) che sulle debolezze del palato ci lucravano.
Così, più o meno, è andata dalle Alpi alla Sicilia da tempo immemorabile. Basta scorrere gli affreschi delle tombe etrusche o delle ville patrizie di Pompei, i manufatti medievali, i capolavori rinascimentali, i trompe l’oeil più recenti. Certo, con l’avvento del fucile, avvenne la prima selezione. Primo, non tutti se lo potevano permetter, il fucile. Secondo, chi ce l’aveva, se non era almeno benestante, doveva ridurre la scelta agli uccelli che “valevano la cartuccia”. Terzo, in mancanza di soldi e di mezzi di trasporto moderni (la moto, l’automobile), i comuni mortali potevano cacciare i migratori solo quando passavano sulle loro teste. Al sud erano un po’ più fortunati, perché molte specie vi trascorrevano l’inverno. La vera novità, nelle nostre abitudini di caccia, l’abbiamo registrata nel dopoguerra, quando col boom economico – lasciata la vanga per il tornio - ci siamo sentiti tutti ricchi, ci siamo fatti la moto, poi l’automobile, e rispondendo al richiamo della foresta siamo tornati al paesello, col fucile a tracolla la cartucciera piena e tanta voglia di dare pienezza a quella passione che i nostri nonni i nostri avi ci avevano trasmesso. Ma, come dicevo più sù, l’appetito vien mangiando, abbiamo fatto come facevano gli indiani con i bisonti. Quando i bisonti si spostavano, anche la tribù si spostava. E così, dal nord, dalla Padania, dalla Romagna, dalle conurbazioni toscane, dal Ternano, raccogliendo anche romani e napoletani, ci siamo spostati sempre più in giù, fino alla Puglia, alla Calabria. Dove, da una parte abbiamo fatto la fortuna di commercianti, albergatori, ristoratori, dall’altra ci siamo messi in competizione con i cacciatori locali, gli agricoltori che d’improvviso si sono trovati in casa degli sconosciuti, e soprattutto ci siamo messi in competizione con quella massa ben più grande di coloro che – col portafoglio paffutello come il nostro (per le stesse ragioni) – hanno cominciato a smaniare per la villeggiatura, credendo di scoprire un mondo che non esiste (bucolico, disneyano, il wilderness, ovvero il selvaggio primordiale, che per ritrovarlo, da noi, bisogna risalire alla preistoria), e appropriandosene senza alcuna mediazione, forti del loro numero, dei loro soldi, della loro ideologia radical scich, della loro prepotenza. I fatti di cui noi ci lamentiamo almeno da trenta-quarant’anni dipendono di gran lunga da questa profonda mutazione sociale, da cui siamo stati attraversati. Forse troppo rapidamente.
Che vuol dire questo? Che ci dobbiamo arrendere? Che il mondo così va e noi non potremo fare altro che rallentarne la corsa? No. Io credo proprio di no. Come sempre, tutto dipende da noi. Diceva Finzi, l’altra settimana, quando illustrava la ricerca promossa dalle associazioni venatorie e dall’associazione che fa capo ai produttori del settore, diceva che il nostro mondo è vivo, vitale, attraversato da energie anche giovani, “moderne”, tutto sta a cogliere i messaggi che ci vengono dalla società. Io credo quindi, che prima di tutto dovremo cominciare a distinguere, a convincerci, che quando noi diciamo “cacce tradizionali”, non sbagliamo se ci riferiamo alle piccole cacce ai migratori. Che sono state la vera essenza della nostra cultura popolare. Ma non possiamo oggi rivendicarle come tali, perché noi, cacciatori contemporanei, non le pratichiamo più come le praticavano i nostri bisnonni. Abbiamo colto l’attimo del cambiamento epocale e le abbiamo “trasformate” in “cacce tipiche”. Innestandovi mezzi e strumenti che - in quanto moderni e modernissimi - non possono essere definiti tradizionali. Da qui, da questa riflessione che non è di poco conto, potremo passare anche a considerare il concetto di “cultura rurale”, che pure ha subito una analoga rivoluzione epocale. Dove sono i fossi cespugliati, i filari, le macchie frangivento, dove sono i poderi con la diversità culturale (mi verrebbe da dire la biodiversità, visto che era proprio la piccola [con]-proprietà contadina, autosufficiente) che garantiva cibo e ricovero alle varie specie selvatiche, stagione per stagione, estatini in estate, masse di migratori in autunno, marzaiole a marzo, e così via. Il contadino non c’è più. C’è l’industriale della campagna. Che da decenni ormai sta trasformando il paesaggio. E non è che si può immaginare che il mondo torni indietro. Sull’Appennino tosco-emiliano vive da tempo una comunità che chiamano Gli Elfi. Vivono lontano dagli affanni della vita contemporanea, brutta copia dei figli dei fiori di californiana memoria. Bravissimi. Facciano pure, se a loro fa piacere. Andateli a trovare. Poi ditemi se qualcuno di voi se la sente di lasciare tutto e andare a far loro compagnia.
E dunque, chiederà giustamente qualcuno, cosa vorresti dire? Niente. Non voglio dire niente. Proprio niente. Mi piacerebbe però che ognuno di noi riflettesse su queste cose, tranquillamente. Come ci riflettevo io, pago di una deliziosa mattinata d’apertura…
Gino Strati