Non è a quello dove si stabiliscono le date di apertura, quelle di chiusura, le specie consentite alla caccia, che ci riferiamo. No. Per quello, regione per regione, provincia per provincia, si sta già lavorando. Non è lavoro semplice, soprattutto nelle attese di una chiarificazione delle norme pasticciate uscite fuori dalla Comunitaria e stante la situazione sulle deroghe, praticamente ingestibili, causa soprattutto le eterogenee e a volte singolari interpretazioni da parte della giustizia amministrativa.
No, il calendario che ci dovrebbe preoccupare è quello ascrivibile a una ripresa dei lavori, dentro e fuori del Parlamento, per RIFORMARE (si, riformare, perchè di questo si dovrebbe trattare) la 157/92. Sono anni che se ne parla, più di quindici ormai; anni in cui se ne sono viste di cotte e di crude, con promesse più volte reiterate, mai portate a compimento, che però spesso hanno prodotto sgradevoli frutti avvelenati.
Inutile ricordare la proposta di legge Orsi, che giace negletta in commissione al Senato. Meglio stendere un velo pietoso sulla già citata Comunitaria, alla resa dei conti una vera e propria beffa.
Qualcuno, sicuramente più saggio, ha proposto un anno sabbatico. Di riflessione. Certo è che nell'odierno clima arroventato della politica italiana, prima di ripartire a testa bassa, sarebbe meglio soffermarci un po' a meditare quale sia il percorso più adatto, che ci risparmi l'ennesima cocente delusione.
Servirebbe quindi un calendario, di breve-medio termine, su cui appuntare i passaggi necessari per dare corso ordinato agli eventi. Prima ancora sarebbe il caso di valutare le diverse posizioni in campo, per non incorrere in clamorose sconfitte. Tralasciamo, ma non trascuriamo ovviamente, il caso Brambilla, ministra-capofila delle passionarie anticaccia: con idee del genere, che spesso nascondono un profondo VUOTO di idee, c'è poco da argomentare. Fosse per loro, la caccia ce la dovremmo scordare. Dietro di loro c'è però una schiera più vasta, organizzata, che rappresenta opinioni e spesso interessi, anche legittimi, ma che da larga parte del mondo venatorio non sono apprezzati. Ci riferiamo all'antica questione della proprietà della selvaggina, che nel passato ha provocato più di un referendum, sostenuto forse nemmeno tanto in buona fede anche dalle associazioni ambientaliste. Certo è che appare sempre più difficile prescindere dal mondo agricolo. Soprattutto in periodo di vacche magre. Gli aiuti comunitari, la Pac, i fondi per i miglioramenti ambientali non sono più ritenuti sufficienti per farsi carico dell'onere faunistico. Tantomeno i rimborsi per i danni provocati dalla selvaggina.
Le associazioni dei cacciatori viaggiano, da troppo tempo ormai, in ordine sparso. E qui sta il problema. Ognuna ha una sua ricetta. Si parte dal concetto di libera caccia in libero territorio, ormai praticamente insostenibile, salvo dettagli, per arrivare a richieste strumentali, come quella di pretendere un rendiconto dell'applicazione della legge in vigore, che non porterebbe ad altro se non a rinviare a data da destinarsi qualsiasi seria discussione.
In questi giorni si riparla anche di un tavolo dei portatori di interessi (cacciatori, agricoltori, ambientalisti, enti locali, governo), attivato dalla Conferenza delle Regioni. Commendevole iniziativa, che rischia però di naufragare per l'ennesima volta, se ripartirà a singhiozzo (qualcuno ne denuncia già autorevoli assenze) e soprattutto senza un minimo di strategia comune da parte delle diverse componenti interessate. La nostra, in particolare, quella delle rappresentanze dei cacciatori. Come al solito, quelli che meno contano sono quelli che urlano di più. Spesso a sproposito. Il guaio è che c'è ancora chi li ascolta.
In ogni caso, proviamo a buttar là qualche provocazione, consapevoli che i conseguenti post, che peraltro sono auspicabili, soprattutto se aiutano a qualificare la proposta, contribuiranno a colmare le non poche lacune. In sostanza, prima di presentarsi a qualsiasi tavolo di confronto con gli altri (agricoltori, ambientalisti) sarebbe il caso di elencare una serie di questioni basilari da non mettere nemmeno in discussione.
La prima in assoluto è che LA CACCIA E' ININFLUENTE SULLA CONSISTENZA DELLA FAUNA SELVATICA IN ITALIA. Lo ha certificato recentemente l'ISPRA, ma sembra che forze politiche, organizzazioni ambientaliste e, purtroppo, diverse organizzazioni di categoria non ne abbiano preso coscienza. Forse, proprio per un fatto di coscienza. La loro, che se non è del tutto arida, è spesso piuttosto sporca, almeno per quanto attiene alle responsabilità della situazione ambientale del nostro paese. La riprova, lo capirebbe anche la cosiddetta casalinga di Voghera, sta nel fatto che almeno un terzo e più del territorio nazionale è interdetto all'attività venatoria, anche grazie ai cacciatori. Ed è là che eventuali popolazioni ove mai fossero tartassate, possono rifugiarsi. Cosa ormai dimostrata scientificamente (qualcuno vada a rileggersi i dati del Cirsemaf, che è il coordinamento delle facoltà di indirizzo biologico-naturalistico), grazie alle indagini effettuate per individuare le cause degli squilibri faunistici che provocano fra l'altro ingenti danni all'agricoltura.
La seconda questione è che anche IL TERRITORIO SOGGETTO A PROTEZIONE DEVE ESSERE OGGETTO DI UN PIU' OCULATO CONTROLLO FAUNISTICO, per il quale il contributo del mondo della caccia è indispensabile, soprattutto in un periodo di vacche magre come l'attuale. [La favola del wilderness (ambiente selvaggio) a più riprese evocato non solo dai soliti ambientalisti di maniera, è argomento che va messo in cantina definitivamente. Dalle nostre parti, sono almeno duemila anni che l'”ambiente naturale” è stato trasformato in “paesaggio”]. Il presidente della federazione dei Parchi, Giampiero Sammuri, vuole che il prelievo col fucile non si chiami attività venatoria, ma anche lui da tempo auspica interventi nei parchi, effettuati in collaborazione con i cacciatori, che fra l'altro svolgerebbero gratuitamente un “servizio” che adesso grava sulla intera collettività.
La terza riguarda l'attribuzione delle competenze sulla caccia. La Costituzione, modificata alcuni anni fa, dice chiaramente che spetta alle Regioni. Per cui, fatto salvo la competenza del Ministero dell'Ambiente per quanto riguarda la tutela delle specie faunistiche, che come abbiamo visto non è per la caccia che corrono pericoli, il Governo - impartiti i principi di base - molli l'osso una volta per tutte e lasci alle regioni di coniugare l'attività venatoria secondo regole che facciano riferimento a due sole fonti: 1) le normative europee e le relative guide interpretative; 2) un uso corretto del patrimonio faunistico, tenendo conto degli usi e costumi locali (e in quanto usi e costumi locali, qualcuno potrebbe aggiungere che dovrebbero essere competenza di chi in quei luoghi è residente). Lasciando perdere alla fine l'eterna diatriba su date di apertura e di chiusura, elenchi delle specie cacciabili, deroghe, limiti di carniere imposti per bolle governative. Competenza che dovrebbe a maggior ragione essere affidata in loco, per quanto riguarda il riequilibrio di popolazioni in esubero, dannose all'agricoltura, all'economia della pesca e al territorio. Storni, cormorani, nutrie, ma anche passeracei in genere, ove dimostrato il danno.
Un lodevole tentativo al riguardo era stato consumato lo scorso anno dalle associazioni venatorie toscane, alle quali dovrebbe andare il plauso di tutti, per essere riusciti a ricostituire un tavolo comune, purtroppo miserevolmente strumentalizzato per interessi di parte (politica), dalle gendarmerie romane, e altrettanto sciaguratamente finito almeno per ora nel dimenticatoio. E' invece di costituire un tavolo di confronto permanente che le dirigenze nazionali dovrebbero rapidamente dotarsi, dopo la buona “prestazione” in sede Face con l'indagine Finzi-Astra e la conseguente efficace campagna di comunicazione. Ma anche qui, pare che riaffiorino i distinguo e soprattutto le rivendicazioni di chi ancora non ha capito che con i dissidi intestini e con la rincorsa del socio a cui raccontare la solita favola, non si può più andare avanti.
Tempo fa, proprio da questo portale, qualcuno lanciò come provocazione un'ennesima sigla, UNICA, Unione Italiana Cacciatori, che raccogliesse tutte le associazioni venatorie (nessuna esclusa) sotto lo stesso simbolo. Non è certo di un'altra sigla che i cacciatori italiani hanno bisogno, chiusa l'Unavi e sul viale del tramonto la Confavi. Ma di sicuro è di un punto di riferimento univoco a cui tutti far capo che oggi più che mai i cacciatori sentono il bisogno. Hanno bisogno. Non fosse altro che per coordinare le strategie di comunicazione, che come abbiamo visto proprio dalla recente ricerca, sono da anni, da decenni, ampiamente prive di efficacia, e comunque al di sotto di quanto si richiederebbe in una società che sulla comunicazione e sull'immagine fonda la sua vita quotidiana.
Vito Rubini