Quando le grandi perturbazioni interessavano la Puglia, il giovane cacciatore raggiungeva col padre le zone di caccia nel Tavoliere. Si oltrepassava il ponte dell’Ofanto costeggiando l’antico tratturo. Nel cuore della notte si affastellavano nella mente le immagini, nell’ansia di raggiungere l’appostamento di caccia prima dell’alba. Ci si accompagnava con l’antico padulano, mentre il vento sferzava il volto e accecava.
Si procedeva con non poche difficoltà, attenti a guadare, aiutati da un bastone di fortuna. Poi ci si appostava alla meglio,evitando l’impeto del vento, lottando contro il freddo che irrigidiva le mani e le labbra. Era caccia d’attesa,nel silenzio d’un cielo che lasciava appena intravedere la luna e qualche stella. Pensavi alle oche. Il giovane cacciatore cercava nelle ombre la sagoma del padre. Poi il genitore si scomponeva,richiamandolo all’attenzione,perché qualcosa stava accadendo. Ne percepì il verso lontano che diveniva via via più chiaro e nitido, con quel rauco vocio che lacerava il silenzio. E si moltiplicava nei cieli. Erano tante,come sagome di cavalieri alati spinti dall’istinto. L’uomo di palude gli accarezzò leggermente la spalla. Era l’avvertimento che qualcuna si avvicinava a tiro. Ed infatti un branchetto sulla sinistra, con volo lento e possente, si presentava a tiro. Iniziava la caccia. Il fucile dalla bocca vomitò fuoco e un fragore dirompente infranse la quiete. Si susseguirono due colpi nel destino del giovane che si segnava indelebilmente col fuoco di Diana. Si scolpiva nella mente una scelta di vita, un futuro sigillato dal tonfo sordo di quell’oca colpita.
Il paziente padulano si congratulava, e quei complimenti erano l’inizio di un racconto che si sarebbe protratto nel tempo. Poi venne la luce. I chiarori dell’alba inneggiavano all’aurora e le oche offrivano uno spettacolo indescrivibile: dalle saline e dalle acque limitrofe s’involavano per dirigersi alla pastura,verso le distese del Tavoliere. Ora in quei cieli non volano più. Addio oche!
Domenico Gadaleta