Il lamento del piviere si percepiva nel silenzio dei campi aperti, fra le brume autunnali, nelle foschie, nelle nebbie. Guardavi verso il cielo, acuivi la vista, senza vederlo, e lui a ripetere il verso del paradiso perduto. Nell’uccello color dell’oro era forte l’istinto della ricerca dello stuolo o dell’amico perduto, perchè nella lunghissima traversata di ritorno verso l’Artico, non voleva essere solo.
Nei primi di novembre questo principe dei migratori, lasciava la terra madre per climi meno rigidi, mediterranei, che se pur freddi, erano ideali per svernare. Il cacciatore con tante licenze sulle spalle, all’approssimarsi di novembre, lo ricorda ancora. E come scriveva il Leopardi, “ mi si stringe il core a pensar come tutto al mando passa e quasi orma non lascia”. E poi “ piviere carne di cavaliere” era il detto che i padri ci hanno tramendato. E da loro proveniva quel richiamo d’osso, stinco di capra, adattato, bucato e riempito di cera vergine, che ne imitava quasi alla perfezione il verso. Lo si poteva costruire anche in legno, come in ebano, legno santo, palissandro, ecc. Ma il fischio d’osso era insuperabile. Bastava soffiare e modulare con le dita l’emanazione del chio – chio, che nel piviere è ploi – ploi, per convincere l’aureo volatile ad avvicinarsi. Non facile al tiro perchè virava velocamente alla sorpresa e, lamentandosi, scompariva all’orizzonte.
La sua presenza era comunque foriera di grandi perturbazioni atmosferiche, con freddo e neve. E per questo il suo arrivo non era di conforto ai pastori che, una volta, trascorrevano le notti nei tuguri, adattandosi alla ben meglio. Il piviere ama soprattutto le terre solitarie, le grandi praterie, i pascoli sempre verdi. Tollera solo la presenza di pastori silenti e solitari, che si accompagnano taciti, allo scampanellio del gregge. Ma la leggenda vuole che lo stesso piviere si lasci avvicinare dagli zoppi o da chi finge di essere tale. Il figlio di Diana usava adescarlo preparando dei capanni d’occasione, mimetici con l’ambiente, senza la positura di stampi, perchè a quelli non ci ha mai creduto, simile in questo al chiurlo maggiore. Solo il fischio lo attirava, se usato con maestria. E spesso tornava solitario o con folti stuoli per lasciare il suo tributo di pregio al cacciatore.
Fra le nebbie mattutine non si riusciva ad intravvederlo. Il più delle volte girava e rigirava alto sullo zenit del cacciatore, senza mai abbassarsi di quota. poi scompariva del tutto; ma non passava molto tempo che lo stuolo si ripresentava compatto, ed allora bastava un trillo appena, che i componenti lo stuolo si aprivano d’ali per planare. Era il momento in cui bisognava smetter di soffiare, ed attendere in assoluto silenzio gli eventi. Lo stuolo era lì ad ali curve, incerto se atterrare o meno. Ed era questo il momento della fucilata.
Erano pochi i cacciatori che praticavano la caccia al piviere, attratti dalle più sprovvedute allodole che, all’epoca abbondanti, picchiavano a capofitto sugli specchietti. E di frequente nella caccia alle allodole, qualche piviere impertinente ci rimetteva le penne. Penso che la caccia al piviere non abbia mai inciso sulla consistenza della specie. Certo che a ritornare a casa con un nutrito mazzo d’allodole dove capeggiava il piviere, era d’onore e vanto al cacciatore. Addio dorato e adorato uccello dei nostri sonni e sogni di caccia. Sappi che la tua caccia non è più permessa, ma tu guardati dalla trasformazione nefasta che quotidianamente subisce il pianeta. Non farti eliminare dalla terra dei viventi, perchè sarebbe una grossa perdita per noi che conoscemmo la tua nobiltà.
Domenico Gadaleta