Un forte boato mi sveglia improvvisamente, corro alla finestra e intravedo un grosso autocarro allontanarsi, dopo aver divelto vari paletti lungo il marciapiedi, eretti a difesa del pedone. Non si saprà mai chi era al volante. Ritorno a letto e seduto con il cuscino sotto la testa, mi guardo attorno, guardo l’ora e nell’angolo della stanza un armadio contenente quattro fucili e munizioni.
Sono le 5 del nuovo giorno, fuori la notte è ancora padrona ma la vista dell’armadio mi illumina gli occhi, ma anche un velo di tristezza si impadronisce di me e mi fa chiudere gli occhi mentre un mare di ricordi risveglia antiche immagini, quando alla stessa ora operavo frettolose alzate, rapida vestizione, prendere la cartucciera, la licenza e poi correre verso il box, avviare il motore e alla massima velocità consentita, andare al punto di incontro con gli amici cacciatori.
L’incontro è come sempre festoso con scambio di saluti e convenevoli, mentre a levante spuntavano le prime tremolanti del nuovo giorno.
Alla presenza di tutti, il capo caccia stabilisce per ognuno la posta, quindi con l’augurio di in bocca al lupo, si partiva prendendo il sentiero verso la montagna. Mentre l’aurora inizia il suo metodico avanzare, si fa sempre più vivo nel mio sognare, il ricordo di quel sentiero diretto verso l’alto, attraversante una stupenda piantagione di ulivi, in silenzio, nel quale si sente il vibrante fruscio metallico delle fronde e del loro respiro. È un punto di così stupenda natura, dove sarebbe bello fermarsi, attorno ad un tavolino ben imbandito e conversare a cuore aperto con tanti amici in un silenzio, dove tutto si può dire e nulla potrebbe essere detto al dialogo con se stessi. Si sale sempre più in alto e gli ulivo sempre più in basso e lontani, al riparo dall’egoismo del mondo; si entra poi in una bella pineta, quindi un castagneto e infine un bosco di roveri, faggi e piante varie, dopo aver attraversato piccole piane e grossi ammassi di pruni selvatici e di erbacce spinose, così intricati da essere impraticabili anche ai cinghiali. Il percorso è sempre più duro, tuttavia con ostacoli superabili anche da uomini che hanno superato il meriggio della vita, ottantenni! Finalmente dopo la bella marcia, e piuttosto faticosa, specie l’ultimo tratto di un fitto bosco di querce e faggi, si apre davanti al cacciatore una larga piana circondata da boschi. Le tenebre sono ormai un ricordo ed uno splendido sole illumina le cime circostanti e varie valli, dalle quali ogni tanto giungono rintocchi di campane, si vedono sparse qua e la casette, formando uno spettacolo stupendo che premia la fatica fatta e invita a pensare alla infinita grandezza del creatore. In pochi minuti il cacciatore sceglie il punto più adatto come vista e facilità di sparo, quindi attende l’inizio della battuta, quando il capo caccia libererà i cani. Un leggero venticello muove le fronde degli alberi, fa freddo ma i primi raggi del sole daranno sollievo e faranno si che l’attesa sia meno dura; un gorgolio di acqua fa compagnia in un ruscelletto, sul quale è posto un tronco d’albero quale ponte.
Nell’attesa il cacciatore ha tutto il tempo per fare un esame su vari problemi e sulla condizione trascendentale personale dell’umanità, nel contesto della sopravvivenza dell’uomo, esame che improvvisamente verrà interrotto dall’abbaiare dei cani che si avvicinano sempre più alla posta. L’abbaiare dei cani è sempre più vicino, la calma precedente diventa una emozione, il cuore batte sempre più forte, lo sguardo è puntato allo sbocco del bosco e dopo pochi secondi ecco sbucare un grosso cinghiale, punta il fucile, attende che sia a tiro quindi spara il primo colpo, il cinghiale rotola a terra, si dibatte, si contorce, poi si ferma nella staticità della morte. I cani sopraggiunti gli piombano addosso e leccano il sangue. Dopo la tensione, un sorriso appare sulle labbra del cacciatore, che con il cellulare avverte il capo caccia che la preda è pronta per essere portata a valle. Il capo caccia conferma che altre tre prede sono pronte, in quanto abbattute dai colleghi in altre poste.
Tutti gli esami mentali che si dibattevano nel cervello del cacciatore in attesa, sono spariti ma pensa solo a liberarsi dall’orpello di regole e del dispiegarsi di ciò che opprime la vita. Incontra i portatori e poiché sono già le tredici, si avvia con essi verso il ristorante dove solitamente, alla fine di ogni battuta, consumano al cena. La marcia in discesa è molto meno faticosa dell’andata e prima di sedersi a tavola, provvederanno a dividere i quattro cinghiali in parti uguali per i diciotto componenti la squadra. L’appetito si fa sentire, per cui tutti a tavola dove troveranno tutto ciò che server a smorzare la fame, la sete e la stanchezza.
La cena è finita e mentre nel cielo cominciano a spuntare le stelle e la luna si alza verso il cielo, terminati i discorsi di successi, di padelle e varie storie romanzate, si ripetono i saluti e si torna nel tempio della propria famiglia, cioè quell’istituzione sociale che oltre ad essere un patrimonio dell’umanità è una inesauribile risorsa, che nel bene implicito a se stessa, coincide perfettamente con il bene della comunità e della Patria. Ora le mirabili vie dei ricordi si fermano e scompare la galoppante fantasia di un passato remoto che sicuramente non si ripeterà, ma si appella alla cruda realtà che obnubila, ma non cancella ogni cosa, ma che ti riporta al presente mondo babilonico e ai molteplici problemi che domani saranno affrontati con la stessa forza e volontà.
Giovanni Marabotti
Concorrente al 18° Concorso Nazionale per Racconti di Caccia "Giugno del Cacciatore"