Il mio bisnonno faceva il domatore di cavalli ed è morto di polmonite dopo essere caduto in un lago in pieno inverno, per recuperare un’anatra abbattuta. Suo figlio (mio nonno) era più calmo.
Fu un perseguitato politico marchiato come “sovversivo” con tanto di banda rossa sui documenti. Quando poteva (e Camice Nere permettendo!), amava cacciare la lepre con i segugi e con il fucile del cugino, ed eccezionalmente partecipava a qualche battuta al cinghiale.
Non ha mai posseduto cani da ferma. Mio padre invece è stato un cacciatore "completo", dalle allodole al Re della macchia. In vecchiaia sono persino riuscito a fargli cacciare daini e mufloni sull'Appennino e i caprioli in Slovenia. Quindi la passione di famiglia venne tramandata al sottoscritto. Io nacqui con un male venaticus cronicus incurabile, senza nessuna speranza. Fin da piccolissimo preferivo infatti tirare con la fionda ai passeri sugli eucalipti dietro la scuola elementare, piuttosto che giocare a pallone assieme ai miei compagni.
Poi feci il salto di qualità e passai alla “caccia grossa”, terrorizzando tutti i gatti del quartiere armato con un arco fatto con le stecche di un ombrellone da spiaggia, perché, purtroppo, la mia micidiale Diana 27 me la facevano adoperare soltanto quando andavamo tutti insieme in campagna. A quei tempi i padri invogliavano i loro figli alle “sane passioni”, come appunto la caccia, la pesca, l’allevamento dei cani e degli uccelletti, ma nel mio caso non ce ne fu assolutamente bisogno. Anzi, era mia madre che cercava di frenare il mio impeto perché si preoccupava che prima o poi sarei riuscito a farmi male sul serio.
Quando ebbi l’età per imbracciare la mia prima arma da fuoco, una meravigliosa carabina semiautomatica Beretta Super Sport calibro 22 Long Rifle, ero ormai un buon “cacciatoretto” a tutti gli effetti, anche se i sedici anni erano ancora lontani. Ma quando arrivarono, il giorno dopo averli compiuti, presi immediatamente un appuntamento con il Direttore del Tiro a Segno per il rilascio del certificato attestante la mia abilitazione all’uso delle armi da fuoco.
Era la prima volta che vedevo quel signore e neanche mio padre lo conosceva, perché noi due sparavamo, spesso e volentieri, ma sempre in aperta campagna. Al poligono quella caldissima mattina di luglio eravamo soli, quindi il Direttore era tutto per noi. Si comportava come chi, consapevole del suo sapere, volesse aiutare il giovane aspirante tiratore con la sua immane esperienza. Mio padre è sempre stato un uomo di poche parole. Tra noi due spesso comunicavamo soltanto con lo sguardo. Senza pronunciar parola mi fece capire di comportarmi seriamente e di non farla troppo lunga, perché sapevo che lui doveva andare a lavorare e che quindi non avevamo molto tempo. Dopo essermi sorbito una solenne lezione sulle norme di sicurezza, su come si maneggia un’arma e sul funzionamento della Beretta “Olimpia” calibro 22 L.R. che il Direttore teneva in mano finalmente me la consegnò, scarica, assieme ad una manciata di cartucce Fiocchi Standard. Chissà se immaginava che io ne possedevo una quasi identica? Affidarmi quell’arma fu come mettere un violino nelle mani di Stradivari.
A quei tempi tra la Diana 4,5 e la Beretta 22, maneggiavo più una carabina che la penna a scuola. Con pochi abili movimenti riempii il caricatore da dieci e attesi con l’arma scarica e la canna rivolta verso il bersaglio il via dal mio istruttore di Tiro, che a quel punto credo si fosse già fatto una mezza idea con chi avesse a che fare. “Metti il caricatore nella carabina, camera la cartuccia in canna come t’ho insegnato e mostrami cosa sai fare. Mi accontento se riesci a colpire il cerchio nero a cinquanta metri almeno cinque volte”. Scambiai un’occhiata con mio padre, che annuì con un sorriso malizioso. Primo tiro: un centro. Secondo, terzo, quarto e quinto come il primo. Guardai il Direttore, che ormai aveva capito l’antifona, e gli dissi: “Cosa faccio? Continuo?” “Ma si, visto che ci sei” mi disse con un sorriso. Completai la serie da dieci colpi con altri cinque centri. Ottenuto il mio bel Certificato e completata la burocrazia necessaria, compresa la firma da parte del genitore, inoltrai la domanda per richiedere il Porto d’Armi per uso caccia. Dopo un piacevole esame e una meno piacevole attesa di circa due mesi, verso la fine di ottobre ero finalmente un “Cacciatore” a tutti gli effetti. Il resto della storia penso sia molto simile a quella di tantissimi altri appassionati.
L’emozione del primo fagiano sotto ferma, la prima starna abbattuta quasi per caso, la prima lepre schizzata da sotto i piedi e così via fino al battesimo di sangue celebrato dal Capocaccia della squadra di cinghialai soprannominato “Er Diavoletto”, con il sangue ancora caldo del mio primo verro. Quanti anni sono passati da allora! Quante cartucce ho sparato e soprattutto quante paia di scarponi ho consumato. Oggi, anche se mi sento più un seguace di Sant’Humberto che di Diana, perché (forse ve ne sarete accorti!) ho contratto inesorabilmente la febbre della caccia a palla, ho sempre nel canile tre ottimi setters ai quali ho recentemente affiancato anche un famelico Jagd Terrier. Insomma, attualmente vivo la caccia a trecentosessanta gradi, lavoro ed impegni familiari permettendo. Per un’eccezionale coincidenza la mia stirpe ha un rinnovo trentennale. Mio nonno era nato nel 1900, mio padre nel 1930, io nel 1960 e mio figlio Giuliano nel 1990, l’anno di “Italia 90”, i mondiali di calcio! I miei ricordi più belli? Quelli indelebili? Sicuramente il mio primo cinghiale e la prima volta che mi recai a caccia all’estero in Slovenia.
Poi venne il Nord America, l’Alaska, e molte nazioni dell’Europa Centrale. Ma fu l’Asia quella che riuscì a suscitarmi delle emozioni difficili da descrivere. Come quando mi recai per un primo “safari” di quindici giorni sulle montagne del paradiso ai confini tra Kyrgyzstan e Cina, e poi successivamente ai confini col Kahzakstan per altri dieci. Il mio sogno nel cassetto? Cacciare e grandi orsi e le gigantesche alci siberiane nella penisole del Kamchakta. |