Fu nel gennaio 1986, si può dire pochi giorni dopo il compimento del 18° anno di età, che finalmente potei coronare il sogno di diplomarmi cacciatore.
L'esame nell'allora sede dell'Ufficio Caccia della Provincia di Milano, in Corso di Porta Vittoria davanti al Tribunale: uno scritto con un solo errore su trenta quiz e un orale ineccepibile mi consentirono di precipitarmi alla prima cabina telefonica nei pressi per comunicare a casa, pieno di orgoglio, che ce l'avevo fatta.
In realtà, più o meno consapevolmente, io cacciatore mi sentivo di esserlo da tanto tempo, avendo calcato le orme di mio padre sin dall'età infantile: ma certo, intascare il porto d'armi nuovo fiammante mi trasmise un'emozione che oggi non saprei descrivere, tanto fu intensa. Ciò detto, il primo anno ufficiale di caccia fu pieno di episodi che meriterebbero di essere rammentati, sia nei successi che negli insuccessi (questi ultimi molti di più, come era ovvio attendersi).
Teatro delle battute, soprattutto la Lomellina di Pavia, con qualche sortita nel Milanese. Caccia di acquatici, di tordi e merli, di colombacci, alcune volte alla stanziale col cane da ferma insieme agli amici di babbo Alessandro: ricordo in particolare Alberto con la sua kurzhaar Zara, che ci accompagnava già da diversi anni e che veniva con noi in auto accoccolata sui piedi del passeggero, mentre io piccolo stavo con armi e bagagli negli angusti spazi posteriori della 500 o della A112.
Cosa ho impresso della mia prima stagione venatoria da protagonista? Tanti e tanti episodi, come dicevo. Il primo però e principale è senz'altro l'apertura. Giorno infarcito di simbologie, di attese, di fremiti, di speranze, in quell'Anno di Grazia 1986 fu invece giorno avarissimo di sussulti e di risultati.
Rammento il caldo afoso di metà settembre, il pigro ondeggiare nella calura dei campi di mais, la cerca infruttuosa di Zara se non per un fagiano involatosi lungo il foltissimo argine del Sesia cui non riuscimmo nemmeno a fare un tiro, le zanzare che ci assediavano appena si cercava refrigerio all'ombra di alberi e cespugli. La colazione al sacco, nostra consuetudine, ci vide stanchi e sudati dopo una mattinata senza occasioni.
Mio padre non lo rivelava, ma son sicuro di non sbagliarmi affermando che il suo dispiacere derivasse essenzialmente dalla mia delusione: oggi sono padre anch'io e lo comprendo fino in fondo. Il pomeriggio non andò meglio ma, siccome la forte passione ci rendeva tosti, ogni residuo barlume di speranza venne affidato alla posta serale alle anatre, cui io non avrei rinunciato per niente al mondo. Il tempo, che si era messo al nuvoloso, insieme al fatto che si trattava del primo giorno della stagione, faceva fondatamente sperare in qualche occasione dentro all'orario lecito.
Ci salutammo avviandoci ciascuno alle poste prescelte lungo il magnifico ramo morto del Sesia che terminava in una lanca rigogliosa di canneti e giuncheti. Gallinelle d'acqua ovunque, garzette, aironi cinerini et similia aiutavano a ingannare l'attesa. Mi ricordo la mia meraviglia per l'assenza di altri cacciatori: se mi capitasse oggidì, subito scaricherei il fucile cercando di verificare di non essere incappato in un improvviso e imprevisto divieto di caccia, allora invece mi limitai a prenderne atto con compiaciuto stupore. Poi, un canto di germano a distanza e i primi transiti a quote elevate diedero l'avvio alle scariche di adrenalina. Il richiamo manovrato manualmente non dava esiti e stranamente gli uccelli, seppure inesperti dell'insidia, non credevano, mentre le lancette correvano inesorabili.
Ma ecco l'occasione: un germano, dopo una curata bassa ma distante, scomparso nella luce già incerta dietro una pioppeta, ricomparve come un fulmine ad ali chiuse alla mia sinistra. In pochi istanti il mio movimento repentino, la sua impennata e la fucilata che lo colse in pieno, spingendolo metri più in là contro lo scuro di un filare di pioppi.
La prima schioppettata e il primo selvatico ufficiali della mia prima apertura! Una gioia esplosiva! Occorreva però recuperarlo, compito non semplice per la fitta vegetazione e per l'orario.
Una ricerca meticolosa, a cerchi concentrici rispetto al punto presunto di caduta, come avevo imparato nel lungo apprendistato, tornando un paio di volte alla posizione esatta di sparo per ricalcolare mentalmente le traiettorie. Ero quasi disperato: non avrei potuto digerire il fatto di perdere il mio primo germano reale.
Mi veniva da piangere, perché ormai a terra si faticava a discernere gli oggetti e tutto era ormai calpestato dal mio andirivieni. E gli altri dov'erano? La snella Zara che avrebbe potuto aiutarmi dove si trovava col suo padrone? Poi, finalmente, delle remiganti rivolte al cielo come un «j'accuse» spuntarono dalle erbacce e io potei prendere in mano il corpo ancora caldo di una femmina di germano che tuttora mi pare la più bella fra tutte quelle susseguitesi nei quasi trent'anni trascorsi da quella sera di fine estate. Ben naturalizzata, la conservo gelosamente nella mia modesta collezione ornitologica. Dopo, i complimenti del mio babbo furono la più degna conclusione della mia prima apertura di caccia. Accadde il 21 settembre 1986.