|
PRIMA LICENZA DI CACCIA, Massimo Zaratin "la mia prima volta" lunedì 12 maggio 2014 | | Se siete stati attratti dal doppiosenso malizioso del titolo ed i vostri occhi stanno ora leggendo queste prime righe, beh, sappiate che non vi deluderò perché vi parlerò proprio della mia più grande storia d’amore, quella per la caccia, della prima volta che sono penetrato in essa, dei sentimenti provati, le emozioni vissute e, soprattutto, cosa mi ha donato negli anni giovanili in cui la vita ti pone innanzi strade tortuose, ricche di bivi insidiosi.
Mica facile tentar di descrivere l’amore; i poeti lo fanno da secoli ma i romanzieri venatori da molto più lontano, dalla notte dei tempi quando ancora si imprimevano sulle pareti delle rocce le mirabolanti gesta amorose con la Dea della caccia, regina degli animali, dei boschi, della luna.
L’amore è felicità, totale dedizione, realizzazione del sé ma è anche quel sentimento che ti rende diverso agli occhi degli altri, e viceversa.
Chi eravamo allora noi neo-cacciatori rurali innamorati per imprinting, immessi a causa di moderne esigenze in una grande città come Mestre, negli anni 70/80? E come questo amore per la semplicità delle cose naturali, la bellezza e lo stupore per tutti gli animali ha influito nella formazione di noi futuri uomini?
Andiamo per ordine. Come è successo a tutti i “cacciatori nati” anch’io ebbi la fortuna di crescere in un ambiente rurale grazie ai nonni che abitavano in campagna, nonostante la mia “postazione letto”, che usavo poco, fosse situata in città. Anch’io ebbi padre, nonno e bisnonno cacciatori pertanto vien da se che la cultura trasmessa, quella di base, tracciò per tutta la mia vita quel profondo sentimento nei confronti di ciò che è la natura, quella vera da vivere, dell’amore per gli animali, gli alberi, la terra e per quelle forme di avventura che non si limitavano alla pura contemplazione naturalistica ma si esplicavano nella ricerca di quegli eventi che ti rendevano artefice e principale attore della scena. La mia prima volta, se per prima volta intendiamo quella in cui si esce con la licenza segnata ed un fucile in spalla, in piena regola, accadde il prima possibile, a 18 anni. In quei tempi frequentavo le scuole superiori e nei ritagli di tempo, mentre i compagni si affrettavano a superare gli esami della patente di guida, io studiavo per la licenza di caccia. L’auto venne dopo; era per me molto meno importante del porto d’armi.
All’epoca uscivo con mio padre ed il suo vecchio cane; quel cane che 10 anni prima, dall’età di 8 anni e fino all’adolescenza, rappresentava per me solo un compagno ideale di giochi. Sono cresciuto con quel bracco e se non fosse stato per la caccia, evidentemente avrei ora un’altra visione sui cani e sugli umani che ne tengono uno solo per mera compagnia. Gli anni della mia vita scorrevano e dio solo sa quante volte, guardando quel cane, gli sussurravo: Chissà se un giorno verrai veramente a caccia con me, se sarai tu il vero artefice della mia prima preda.
Fu proprio facendo sul serio, durante le mie prime uscite col fucile, che scoprii improvvisamente che quel cane affettuoso e dallo sguardo buono e nostalgico, era invece l’espressione della potenza e della bellezza, un connubio perfetto con quanto lo circondava. Quel cane di giochi era vero ed unico in questo suo ambiente naturale, mentre la simbiosi con me ne completava la complicità.
Come in tutte le storie d’amore in cui si vive pienamente di emozioni e sentimenti, la caccia dei primi anni, quella che va dai 10 ai 20 anni, passando per la prima volta dei 18, ti rende un uomo diverso per il resto della vita. L’esuberanza della giovane età e questa passione che ardeva forte nel petto, a noi giovani cacciatori, ci rendeva diversi, a nostro sentire anche superiori volendo, rispetto a chi queste emozioni non le viveva. Mi chiedevo spesso come i miei amici di città, con le normali passioni ed aspirazioni della gioventù dell’epoca, potessero vivere senza un contatto vero con la natura, senza questa cosa che ti donava piacere anche solo nell’attesa dello stesso piacere. Noi avevamo un qualcosa che era precluso agli altri. Eravamo ragazzi che possedevano il segreto della natura, che conoscevano l’essenza della terra, del ciclo delle stagioni e delle più intime meraviglie degli animali.
Noi, negli anni 80, mentre assistevamo indifesi all’opera di cancellazione della vita da parte dell’eroina, quando le stragi sull’asfalto del sabato sera completavano il rito macabro di una gioventù allo sbando, ci drogavamo di terra, di boschi e di stanchezza. Ricordo che spesso, di domenica pomeriggio quando si andava in discoteca, dopo un’intera mattinata passata a caccia, quando l’effetto dell’affaticamento sul corpo donava gli stessi dolci sintomi di un tranquillante chimico, anziché la classica birra come facevano tutti, ordinavamo una tazza di camomilla per esaltare quella droga naturale che ci era stata donata dall’alba.
C’era quindi una parte di società, quella dei neo cacciatori sotto i 20 anni, che pur curando i sogni e le aspirazioni di tutti i giovani, cullava anche l’amore profondo per la natura e carpendone in essa la creazione del tutto, la prese come una specie di guida spirituale. Una parte di società che, prima nella prospettiva di farsi il porto d’armi, poi per mantenere questo strumento che serviva a penetrare nella dimensione amata, doveva rigare dritta sapendo che anche solo una piccola denuncia, una rissa giovanile, il provare una droga, poteva significare la fine di questo amore.
Ritorno ai giorni nostri, penso con amarezza ai giovani di oggi ed ancor più amaramente penso a quella parte di società ideologicamente e culturalmente in antitesi rispetto a quella che negli anni della mia gioventù viveva con questo profondo amore per il vento sulla faccia, in attesa delle prime luci dell’alba quando si era pervasi dall’emozione di rapire quel sospirato incrocio di sguardi con gli animali. Era questo amore che ci indirizzava nella vita e ci faceva raccogliere pian piano come un fiume che scorre verso il mare trascinando con se le cose più leggere ed abbandonando le più pesanti, i giusti valori che stanno alla base della semplicità, della naturalità e della spontaneità.
Mi viene da sorridere se penso che solo qualche mese fa, durante una manifestazione, un giovincello, attivista animalista convinto che avrà avuto l’età in cui provai queste mie prime esperienze, mi disse con l’arroganza e la prepotenza che contraddistingue chi sicuramente non ha un porto d’armi da perdere: io devo insegnarti un mondo migliore, devo insegnarti a vivere!
Sorrisi, ma nello stesso tempo pensai: dio mio, perché li hai abbandonati!
| Leggi altre interviste | |
|
|
|