Come si conciliano grossi investimenti finanziari con la tutela dell'ambiente e delle sue risorse? E' ciò che si trova a dover spiegare Greenpeace, che in un sol colpo ha bruciato una buona parte delle donazioni ricevute dai suoi sostenitori in una speculazione finanziaria andata male. 3,8 milioni di euro, a tanto ammonta la perdita per la scommessa fatta, tra l'altro, sulla svalutazione dell'euro.
L'associazione ha tagliato corto, attribuendo la sciagurata vicenda all'esuberanza di un dipendente del dipartimento finanziario di Amsterdam, colpevole del “grave errore”. Che per Greenpeace non è quello di aver giocato in borsa, ma semmai di averlo fatto male. La società, proprio come si trattasse di una banca o di un istituto finanziario, parla di di “errore di valutazione” su uno “swap” (contratto di protezione dalla svalutazione dei cambi). "Si tratta di prassi comuni in strutture come la nostra, che hanno filiali in molti Paesi", ha spiegato il portavoce di Greenpeace, "perché altrimenti saremmo troppo esposti alle fluttuazioni valutarie e rischieremmo di perdere denaro utile alle nostre strutture in tutto il mondo".
Sul settimanale Der Spiegel l'organizzazione chiede scusa ai tanti (circa 3 milioni di persone) che appoggiano le battaglie di Greenpeace, facendo sapere che il dipendente in questione è stato licenziato per aver “oltrepassato le sue funzioni”, prendendo l'iniziativa di concludere uno di quei contratti senza l'approvazione dell'organizzazione, in particolare della tesoreria dei Paesi Bassi. La perdita andrà a incidere su un bilancio annuale che si aggira sui 300 milioni, ma sarà ripartita in due o tre anni.
Non c'è che dire, una bella lezione non solo per Greenpeace ma anche per tutte le altre organizzazioni ambientaliste che ormai somigliano più a società per azioni che a vere Ong senza scopo di lucro. Non è passato poi molto dagli scandali italiani da cui è emersa una blanda gestione dei fondi provenienti dai cittadini, con tanto di case in Maro Rosso, spese dentistiche e viaggi di lusso. Anche in quel caso (Enpa) si parlò di responsabilità individuali. Quanto a Greenpeace, forse è una questione di karma: pensiamo a tutte quelle famiglie ridotte sul lastrico perché dedite ad un'attività tradizionale come era per le popolazioni Inuit la caccia alla foca. Dopo le violente campagne degli anni 80 si è verificato uno spopolamento progressivo di questi luoghi abitati da millenni. Greenpeace in seguito ha riconosciuto il proprio errore, tanto che ora si dichiara a fianco delle popolazioni dell'Artico, a sostegno di caccia e pesca sostenibili. Peccato che i danni culturali e sociali siano stati irreversibili.